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  • Gilda Di Nardo

Il ricovero in ospedale e i vissuti psicologici del paziente


In seguito a un mio breve ricovero in ospedale, ho deciso di dedicare uno spazio agli aspetti psicologici legati a questo tipo di esperienza, nella convinzione che essi vadano sempre più presi in coniderazione in ambito sanitario e che il lettore che passi da questa pagina possa trovare nelle seguenti righe spunto di riflessione o informazione e sostegno. Mi accingo infatti a proseguire quest'articolo nella profonda convinzione che sia sempre più necessario il passaggio da una visione tradizionalmente medica del concetto di malattia e di cura focalizzato sulla patologia ad un approccio orientato alla salute e alla persona, con la presa di consapevolezza dei bisogni non solo fisici, ma anche psicologici e sociali, caratteristici di ogni singolo individuo. D'altronde la stessa OMS ( Organizzazione Mondiale della Sanità) ha da tempo definito il concetto di salute come "uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o infermità" .

Il ricovero in ospedale è un avvenimento straordinario nella nostra vita che può avvenire in modo inatteso o prestabilito. I vissuti psicologici legati alla motivazione e alla accettazione del ricovero dipendono da numerosi fattori, quali la storia clinica e di vita del paziente, la sua personalità, la diagnosi e la prognosi.

Ci sono chiaramente vissuti diversi a seconda del: carattere estroverso o introverso del malato, il livello di consapevolezza della malattia, il momento di cura (es. periodo con elevato carico di sintomatologia = probabile stato depressivo), l’esperienza di malattia (es. recidiva).

Esistono grandi differenze individuali ovviamente ma fondamentalmente possiamo far riferimento intanto a quelle esistenti tra quattro principali categorie di pazienti che ritroviamo in Rossi ( 2004):

  • il paziente internistico;

  • il paziente chirurgico;

  • il paziente con malattia cronica;

  • il paziente con prognosi infausta.

Il paziente internistico L’ambiente fisico dell’ospedale provoca ansia ed irritazione (Farnè, 2001), senso di minaccia, frustrazione e depressione (Rossi, 2004) per una serie di fattori: lontananza dalla famiglia, abbandono delle vecchie abitudini, organizzazione e orari dell’ospedale, rumori, limitazioni dello spazio personale ed infine perdita della propria intimità. Dal momento in cui entra in ospedale, e in particolare nella sua camera, il paziente, mentre è già preoccupato per la sua malattia e quindi pieno di ansie, è obbligato a sperimentare una serie di situazioni nuove: talvolta deve indossare un camice rinunciando a simboli di identità personale come i vestiti, fare conoscenza con gli altri degenti della camera, entrando a far parte di un ordine sociale nuovo e a lui sconosciuto, relazionarsi al personale medico e infermieristico, sottoporsi ad esami, deve essere infine collaborativo e passivamente disponile a tutti gli interventi invasivi e alle volte anche dolorosi che verranno decisi per lui (Gammon, 1998). Ne consegue un impatto psicologico, che si può manifestare con reazioni difensive come ansia, aggressività, regressione, depressione, isolamento, che fanno parte di un processo (che se non sostenuto può rimanere un tentativo fallito) di adattamento alla nuova realtà; può anche darsi che il paziente reagisca al meglio a tutto ciò ma non è detto che trovi intorno a sè un ambiente in tal senso supportivo e stimolante.Spesso infatti il personale ospedaliero si relaziona alla patologia, anziché alla persona, dimenticando e soprattutto sottovalutando il fatto che un successo terapeutico dipende anche dalle risorse e dal vissuto del soggetto. Secondo uno studio di Yen (2002), sei sono i fattori sentiti maggiormente come necessità da soddisfare: condizione fisica, rapidità ed efficacia dell’assistenza infermieristica, la responsabilità e l’attitudine del personale a prendersi cura di loro, l’alimentazione e le spese mediche. Altri studi (Gustafson, 2001) condotti su pazienti cardiologici, indicano che due sono i fattori chiave che delimitano i bisogni di questi malati: l’informazione e il supporto psicologico, considerati fondamentali ma carenti. Coloro che si ritenevano aiutati e socialmente supportati riportavano livelli minori di depressione, nei momenti iniziali. Nella prognosi di persone con infarto miocardico, la depressione e la mancanza di supporto sociale sono i fattori condizionanti una prognosi peggiore. Il paziente cronico Il paziente cronico vive la progressione della malattia. La malattia cronica con il suo progredire assume dimensioni sempre più rilevanti costringendo costantemente la persona a modificarsi, talvolta in maniera inconsapevole, sia nel rapporto con gli altri e con se stessi, sia nell’accettazione del nuovo modo di vivere (Lacroix, 1995) e delle progressive perdite (salute, integrità fisica, normalità, libertà, autonomia). Sono state individuate tre fasi specifiche (Rolland, 1987) attraversate dal malato cronico durante il decorso della malattia, dal momento della diagnosi fino alla morte:

  1. la fase della “crisi”: il malato durante il periodo immediatamente precedente e successivo alla diagnosi inizia a sperimentare i sintomi della patologia;

  2. la fase cronica: il malato attua continui tentativi per adattare la sua vita ai limiti e alle menomazioni in continuo aumento;

  3. la fase terminale: il malato esperisce vissuti di dolore e di morte.

Il paziente chirurgico Le prove diagnostiche e gli interventi chirurgici, con l’incognita dei loro esiti, provocano disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione, timori sulla propria sorte. Spesso queste risposte emotive vengono aumentate dalla mancata o scarsificata comunicazione con il paziente da parte del personale ospedaliero. Si è osservato che pazienti correttamente informati sul proprio stato di salute, sulle prescrizioni mediche, sulle modalità di somministrazione dell’anestesia, sui rischi dell’intervento e sugli eventuali dolori post-operatori, hanno una degenza inferiore in termini di tempo e di uso di analgesici. Contrariamente a quanto ritenuto di frequente dal personale, alcune ricerche dimostrano che in mancanza di informazioni precise sul proprio stato di salute, è facile pensare che la propria condizione sia più grave di quanto non lo sia in realtà. In uno studio di Leo D. Egbert, dell’Università dell’Oregon, un campione di 97 ricoverati per un intervento di chirurgia addominale è stato suddiviso in due gruppi: uno veniva informato in modo dettagliato sulle varie fasi dell’intervento (durata, effetti anestesici, dolori post-operatori), l’altro non riceveva alcuna informazione. I risultati hanno dimostrato quanto il ricevere informazioni sull’intervento migliori le strategie di coping: i pazienti del primo gruppo, infatti, dopo l’intervento richiesero un dosaggio di antidolorifici e sedativi inferiore del 50% rispetto a quelli del secondo gruppo, presentarono minor livello di preoccupazione, irrequietezza e dipendenza dal personale ospedaliero e vennero dimessi in media tre giorni prima.

Il paziente con prognosi infausta La serie di problemi psicologici che si generano durante una degenza con prognosi infausta sono di diversa natura: da quelli relativi alla propria identità (derivanti dalla perdita del ruolo professionale ed economico, la perdita del ruolo nell’ambito familiare, declino delle capacità intellettuali); alle conseguenze emotive prodotte dalla malattia e dalle terapie (paura di morire, paura che il dolore diventi insopportabile, paura di perdere l’autocontrollo mentale e/o fisico, paura di diventare un peso per la famiglia, paura di morire prima di aver risolto problemi rimasti in sospeso, soprattutto relazionali). Naturalmente c’è una fase che anticipa tutto questo e che riguarda i medici della comunicazione di prognosi infausta o gli operatori che danno la notizia al malato. Comunicare a qualcuno che è portatore di prognosi infausta è un compito delicato e difficile, ci sono la paura di portare dolore, di sentirsi accusati perché messaggeri di una cattiva notizia, di dirlo nel modo sbagliato perché non si ha ricevuto alcun insegnamento a riguardo, la paura di non contenere le proprie emozioni mantenendo la calma, la personale paura della morte (Buckman, 1992). L'operatore può essere portato a informare in modo insufficiente il malato circa la propria prognosi, fornendo informazioni solo parziali o ambigue, attraverso omissioni. In questo modo l’operatore può far generare false illusioni nel paziente, invece che speranze legate a obiettivi realistici, come l’assenza di dolore. Esiste tuttavia il diritto di non sapere. Una volta accertata la volontà del malato di non avere notizie sullo stato della malattia per non aumentare l’angoscia, è doveroso rispettare le sue difese, in modo che alla persona sia data la possibilità di confrontarsi con la verità che in quel momento della sua vita è in grado di comprendere e accettare (Bellani, 2002). Secondo Elisabeth Kubler-Ross, quasi tutti i pazienti percorrono cinque fasi di adattamento, non necessariamente nell’ordine qui di seguito:

  • la negazione o rifiuto, che è inizialmente funzionale all’elaborazione;

  • la rabbia, diretta in tutte le direzioni;

  • il patteggiamento, con Dio o la sorte, in cui il desiderio di vita viene limitato agli ultimi desideri;

  • la depressione, che sostituisce le prime due fasi, nel momento in cui il paziente non può più negare l’aggravarsi della sua malattia. La depressione è reattiva, ovvero secondaria alla situazione, e preparatoria, correlata ai vissuti anticipatori di separazione dalla vita, dalle persone care, da luoghi e cose amate;

  • Infine , se il paziente ha avuto il tempo e l’aiuto per superare queste fasi, c’è ll’accettazione. La debilitazione fisica può trasformare la stanchezza in desiderio di riposo, non più temuto, ma quasi desiderato.

Passando dallo specifico delle suddette categorie di pazienti alle generiche condizioni di stress che un ricovero può comportare c'è da considerare che lo stress psicologico che sta vivendo il paziente non gli permette di comprendere al meglio e ricordare esattamente le spiegazioni dei sanitari. Inoltre c'è una srta di perdita di identità e scarsa familiarità col sistema in cui si ritrova. C'è inoltre da considerare che:

  • La mancanza di appropriatezza di determinati termini medici o il timore o la difficoltà nell’essere esplicito o nel richiedere ulteriori approfondimenti può creare una barriera nella comprensione.

  • La tipologia della malattia non ancora diagnosticata o approfondita e la mancanza del dovuto tempo non permettono agli operatori di chiarire ulteriormente quanto richiesto o di essere maggiormente espliciti.

Per quanto oggi il paziente è al centro delle cure mediche, l’attenzione è posta per forza di cose verso la sua sintomatologia e nei riguardi della malattia, ciò può creare nel soggetto la sensazione, in alcuni casi può corrispondere a realtà, di non essere ascoltato come persona, nella sua globalità riguardante anche la storia personale e i vissuti specifici.

Altra componente dello stress è quella dell'interazione con gli operatori:

Gli elementi basilari sono, riguardo all’équipe:

  • Grado di formazione all’approccio relazionale: quanto il personale è preparato a gestire il paziente anche dal punto della relazione empatica.

  • Disponibilità a contattare l’altro: quanto il personale è disposto, e/o ha la disponibilità di tempo per farlo, a creare una buona interazione empatica col paziente.

  • Grado di soddisfazione professionale: riguarda la motivazione al lavoro dell’operatore e la presenza di soddisfazione nell’espletarlo o al contrario di frustrazione per non poterlo espletare nel modo desiderato.

  • Possibilità di trovare uno spazio contenitivo: quanto il personale ha la possibilità di portare i propri vissuti psicologici di disagio o di difficoltà nelle riunioni o in gruppi specifici (come quelli periodici con lo psicologo), in modo da poter limitare il proprio disagio, nel caso vi sia, dato dal vissuto quotidiano con la sofferenza o con determinate problematiche lavorative.

  • “Clima dell’équipe”: riguarda il livello di accordo e di intesa che sussiste fra i membri dell’èquipe e che contribuisce al senso di soddisfazione oltre ad influenzare l’operatività.

Riguardo al paziente:

  1. Il rapporto di fiducia nei confronti degli operatori, soprattutto del medico che lo ha in cura.

  2. Il tipo di atteggiamento con il quale il paziente si confronta con gli operatori che si può distinguere in: passivo, aggressivo, assertivo

C'è poi da considerare che alcuni pazienti si ritrovano soli nella malattia, altri hanno una buona rete relazione e famigliare ed altri ancora pur avendola ne vengono danneggiati più che sostenuti ( nuclei familgiari ostili, troppo ansiosi o scarsamente supportanti).

La famiglia può fornire un valido supporto per lenire il disagio provocato dal ricovero. Il paziente potrà provare vissuti diversi in base:

  • Al clima familiare: si tratta della qualità relazionale fra i membri della famiglia per la quale il soggetto si sente a proprio agio quando essi sono presenti oppure a disagio a causa di una conflittualità già presente.

  • Alla predisposizione o meno ad affidarsi ai parenti per le proprie cure: può succedere che i pazienti si sentono di peso per i propri familiari che fanno dei sacrifici per poterlo assistere, limitando i loro impegni lavorativi e/o con le rispettive famiglie.

  • Al modo con cui viene vissuta una terza persona nell’assistenza: in alcuni casi i pazienti sono contenti, in altri si sentono abbandonati dai propri cari oppure sentono maggiormente il peso della loro malattia che si ripercuote anche economicamente sulla famiglia

Altro aspetto importante dell'ospedalizzazione è l'interazione con gli altri pazienti, essa può influenzare notevolmente il vissuto del malato in ospedale in:

a) MODO POSITIVO perché egli incontra :

  • Pazienti malati da più tempo e li vede stare meglio. Per esempio: persone che da anni fanno solo controlli periodici e stanno bene = gli creano un atteggiamento positivo, di guaribilità della malattia.

  • Pazienti con la stessa malattia, ma con sintomatologia più severa = lo influenzano positivamente perché il soggetto si rende conto di aver contratto la malattia in forma più leggera.

  • Altre persone che come lui vivono una malattia = può confrontarsi con loro, condividere le stesse esperienze e sentirsi maggiormente compreso.

b) MODO NEGATIVO Per alcuni degli stessi motivi del vissuto positivo, ma che da determinati pazienti vengono visti in modo opposto:

  • Pazienti malati da più tempo che vede stare meglio = gli fanno pensare di essere più grave.

  • Pazienti con la stessa malattia, ma con sintomatologia più severa = gli fanno pensare che la sua malattia peggiorerà.

  • Altre persone che come lui vivono una malattia = lo mettono a contatto con altre persone che soffrono.

  • Può veder morire dei pazienti.

  • La continua frequenza lo porta spesso a vedere l’iter della malattia nelle altre persone, soprattutto quando si aggrava.

Tanto può essere importante la famiglia quanto la rete di amici. In molti casi le persone fanno difficoltà a recarsi in ospedale per andare a trovare un conoscente ammalato, spesso i motivi riguardano la loro storia personale con la malattia.

Il cancro, come anche altre malattie molto severe (AIDS, Alzheimer, ecc), attiva fantasie di morte e di sofferenza spesso difficilmente tollerabili.

Il risultato si traduce spesso in senso di solitudine per:

  • Elevato assenteismo degli amici.

  • Maggior numero di sms rispetto alle telefonate.

  • Maggior numero di telefonate rispetto alle visite.

  • Visite piene di imbarazzo e spesso troppo brevi o troppo lunghe.

  • Difficoltà degli amici a relazionarsi con la parte sana del malato o a riconoscergli la parte malata.

Chiudo ribadendo che la considerazione dei fattori psicologici va maggiormente inserita nel processo di cura e sostegno del paziente ospedaliero tanto quanto nella formazione degli operatori. E' ovvio che esistono situazioni in cui non ha tempo di contemplare e valutare tali fattori, soprattutto qundo si deve tempestivamente intervenire per salvare una vita, ma nel caso dei ricoveri si può fare di molto meglio.
Di certo la ricerca può fare molto in tal senso ed anche nel tarare nuovi strumenti di formazione per gli operatori ed educazione terapeuticaer quanto riguarda i pazienti esistono ad esemp dei meravigliosi strumenti educativi, come ad esempio il CDSMP ( Chronic Disease Self Management Program ) o corso di educazione all’autogestione, creato in base alla convinzione che:
  • pazienti con patologie croniche differenti hanno problemi di strategie adattive simili;

  • è possibile apprendere le capacità per gestire in modo migliore la malattia;

  • tale apprendimento facilita la sensazione di benessere nei malati e diminuisce il numero di ricoveri ospedalieri necessari.

L’utilizzo di tale strumento ha effettivamente dato i risultati agognati, favorendo tutti i comportamenti adattivi –compreso il mantenimento e l’ampliamento delle relazioni sociali- che aumentano il sentimento di benessere e riducono i disagi e le difficoltà (Lorig, 2001).

Bibliografia Beers, M.H. e Berkow, R. (2000), The Merck Manual of Geriatrics, III ed., Whitehouse Station, N.J., Merk & Company. Bellani, M.L. (2002), La comunicazione di cattive notizie in oncologia, Masson, Milano. Bellotti, G.G. e Bellani, M.L. (1991), Dinamiche psicologiche in chirurgia, in Cipolli e Moja (1991). Buckman, R. (1992), La comunicazione della diagnosi in casi di malattie gravi, Milano, Cortina, 2003. Corli, O. (1988), Che cos’è la medicina palliativa, in Una medicina per chi muore. Il cammino delle cure palliative in Italia, Città Nuova, Roma. Farnè, M. (2001), Psicologia Salute e Malattia, Zanichelli, Bologna. Gammon, J. (1998), Analysis of the stressful effects of hospitalisation and isolation on coping and psychological constructs, in International Journal of nursing Practice, IV, pp. 84-96. Gustafson, D.H. (2001), Increasing understanding of patient needs during and after hospitalisation, in The Joint Commission Journal on Quality Improvement, XXVII, 2, pp. 81-92. Kubler-Ross, E. (1970), La morte e il morire, Assisi, Cittadella , 1976. Lacroix, A. (1995), The patients’ voice: Testimonies from patients suffering from chronic disease, in Patient Education Counseling, XXVI, 1-3, pp. 293-299. Lorig, K.R. (2001), Chronic disease self-management program: 2-year status and health care utilization outcomes, in Medical Care, XXXIX, 11, pp. 1217-1223. Rolland, J.S. (1987), Chronic illness and the life cycle: A conceptual framework, in Family Process, XXVI, 2, pp.203-221. Rossi, N. (2004), Psicologia clinica per le professioni sanitarie, Il Mulino, Bologna. Yen, M. (2002), Concerns of hospidalized care from patients perspectives, in The Journal of Nursing Research, X, 2, pp. 121-128.

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