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  • Gilda Di Nardo

Rigidità e flessibilità: un po' come cambiare marcia


Condivido qui alcune riflessioni sulla rigidità per due motivi. Il primo è che in base all'esperienza di alcuni miei pazienti questo sia un tema importante su cui riflettere, il secondo è che credo che uno dei compiti principali della psicoterapia sia offrire all'individuo un sostegno mirato ad ampliare la propria visuale, muoversi con maggiore elasticità ( quindi minore rigidità) tra processi cognitivi, vissuti emotivi e schemi relazionali dopo averli esaminati, ampliati e in caso di necessità corretti. Nel dire quotidiano tendiamo a identificare come rigida una persona che non capisce o non vuole capire un punto di vista diverso dal suo, oppure che, per il fatto di avere ragione, perde le staffe nel tentativo di convincerci del nostro errore, qualcuno insomma che rifiuta riflessioni, idee o prospettive diverse, per restare comodo e rinchiudersi in un personale schema mentale. In effetti la rigidità mentale implica l’assenza di flessibilità e di apertura, le quali ci aiuterebbero a riflettere con diverse prospettive, a sopportare le critiche. La psicoanalisi ha inteso la rigidità mentale come una resistenza del paziente di fronte al cambiamento o a una situazione che si vuole evitare. Questa definizione è strettamente connessa al senso che diamo a tale espressione nel quotidiano. Un possibile esempio è la rigidità mentale del paziente di fronte all’amore o all’impegno, complicandosi così la vita per questo argomento. La rigidità mentale è anche legata al concetto di “zona di comfort” e, in questo caso, agisce tarpando le ali, le quali sarebbero necessarie per l’immaginazione, la superazione di se stessi, l’ampliamento della propria zona di comfort e l’esplorazione di nuovi orizzonti. Quando la rigidità mentale è un sintomo, la troviamo nei disturbi come la Sindrome di Asperger, la demenza senile o il disturbo ossessivo compulsivo. Il concetto di rigidità mentale più diffuso, però, è quello che si riferisce ad un tratto della personalità. Ciò significa che, generalmente, in psicologia clinica, la rigidità è intesa come un insieme di caratteristiche soprattutto mentali, ma anche emotive e comportamentali, che si presentano tutte insieme e in maniera stabile. Uno dei concetti che mi pare più interessante, parlando di rigidità, è quello di chiusura cognitiva, termine che fa riferimento alla necessità di eliminare l’incertezza che si presenta a causa di un pensiero o una situazione. Tale necessità si attiva motivando l’individuo a dare una risposta semplice. Quanto più è forte il bisogno di chiusura, più energia si impiegherà nell’accettazione della risposta e della sua difesa. Tuttavia, ciò non implica che la risposta sia positiva, corretta, genuina o saggia. Per quanto riguarda il bisogno di chiusura cognitiva, va detto che, nonostante esistano delle scale e dei test per misurare la rigidità mentale (Webster y Kruglanski, 1994), la verità è che ne siamo tutti affetti. Abbiamo bisogno di chiusura. Non c’è niente di più umano che la ricerca dell’efficienza mentale e il tentativo di evitare il malessere causato dall’incomprensione, soprattutto se anche le nostre emozioni sono implicate. È difficile essere rigidi oppure non esserlo per nulla, aver bisogno di chiusura cognitiva o non averla affatto. In fin dei conti, anche se si tratta di fattori misurabili, siamo noi a gestire la radice del problema. Insomma una certa dose di rigidità serve ed è ineliminabile, troppa appesantisce il nostro benessere mentale e relazionale. E' importante ad esempio riflettere su ciò che produce la rigidità mentale all’interno di una relazione interpersonale (amicale, amorosa, professionale ecc.): non di rado dietro la rigidità di chi si arrocca su sterili e infruttuose posizioni, si cela una buona dose di risentimento e di aggressività inespressa nei confronti dell’altro (del partner, di un familiare ecc.). Chi si nutre di orgoglio e non porge mai la mano, chi si erge a “paladino della giustizia” anche quando non è stato perpetrato alcun torto, chi tira pretestuosamente in ballo questioni datate per giustificare le attuali mancanze, spesso cerca, a livello profondo, di recuperare un credito che pensa gli spetti di diritto: è come se agisse per placare un insaziabile sentimento di ingiustizia che affonda le proprie radici in un polveroso passato. Saper analizzare adeguatamente ciò che ci accade e sapersi adattare in modo congruo, rappresenta allora il miglior biglietto da visita della propria coerenza, di contro si rischia di restare impigliati in una fitta trama di rapporti interpersonali complicati, dove il compromesso non è consentito ed il conflitto la fa da padrone.

Nostro compito non è quello di essere più o meno chiusi, bensì quello di capire perché lo siamo e quanto ciò ci danneggia. Dobbiamo essere onesti con noi stessi e chiederci se siamo più persone che cercano spiegazioni o che le danno, se lasciamo parlare i nostri amici quando ci dicono qualcosa. Molto probabilmente se a volte lasciamo che la curiosità vinca la tentazione di accontentarsi della prima risposta disponibile, se siamo capaci di vivere ponendoci delle domande, allora siamo ben lontani dall’essere individui mentalmente chiusi e siamo quindi capaci di tollerare l'incertezza e l'impossibilità di avere tutto sotto controllo. Se da un lato non ha nessun senso dire cose del tipo “io sono meno rigido di te”, dato che la scala dell’inflessibilità mentale varia da persona a persona, dall'altro ognuno di noi può compiere quotidianamente un'autoanalisi sul proprio livello di rigidità e giocare con la propria capacità di essere flessibili. Chi guida sa quanto sia importante avere un cambio non troppo duro nè troppo morbido e durante il tragitto cambiare marcia a seconda delle necessità. Il percorso tra rigidità e flessibilità si caratterizza nello stesso modo. Buon viaggio!

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